DEREK TRUCKS: ALL IN THE NAME OF BLUES

Un tour da incorniciare: la prima volta di Derek Trucks nel nostro paese è stata un grande successo, festa di musica e pubblico. Ecco la serata di Roma, la prima delle quattro complessive, raccontata per noi da Walter Gatti:
"Grande musica. Era la prima volta che vedevo live il ragazzino con la sua band e devo dire che per quanto mi riguarda la serata si infila tra le poche memorabili dell’annata (sicuramente della “mia” annata live). Scaletta ben confezionata, che si snoda con 44 blues, I whish i knew, Soul serenade, I’ll find my way, For my brother, con Derek sempre al centro della scena senza parlare, quasi timido nelle parole e nei gesti, mentre la band fa il suo mestiere (soprattutto applausi ad un batterista notevole: Yonrico Scott). Serata tutta elettrica e tuffo micidiale nel blues con una Key to the highway giustamente lenta e sorniona. C’è una vena funky-rock, che vien fuori divertente e sofisticata in Blind, crippled and crazy e in All I do, mentre la predisposizione jam della band trasuda da tutti i pori e raggiunge la sua dilatazione massima in My favourite things di John Coltrane (da un paio di anni entra nei set della DTB), che supera abbondantemente i 15 minuti. Dell’ultimo disco si fan sentire le assenze di Crow Jane, Voluntareed slavery e di Saling on, ma è anche divertente vedere che nonostante le richieste del pubblico, rimangono assolutamente fuori serata i pezzi della Allman.
Ma lui, Derek, come se la cava? Beh, la risposta è: terribilmente bene. Ancor più vivida che in Songlines live avanza la percezione che ci troviamo di fronte a “un altro mondo chitarristico”, un po’ come quando era apparso Eddie Van Halen oppure Jeff Healey: altri approcci, altre visioni del suono. Derek ha due strade da percorrere: il suono “normale” e la slide. Quando suona “normalmente” la sua Gibson rossa, evita accuratamente l’uso del plettro, ricavando un chitarrismo singolarissimo: se utilizzasse il plettro sarebbe limitato nell’uso della mano destra (un po’ come Toy Caldwell, ma portato a conseguenze molto più estreme). Quando afferra il bottleneck è un’altra partita: passa dal lirismo alla torrida accelerazione, utilizza il suono come fortemente percussivo e vibrante oppure brucia le tappe verso le ottave alte del manico della Gibson. Ad ogni titolo ti chiedi quale delle due soluzioni (suono “pulito” o slide) andrà ad utilizare e mi viene anche il dubbio (e se qualcuno vorrà inviare commenti dopo i prossimi concerti, ben venga) che scelga pure di variare di concerto in concerto la soluzione migliore, seguendo l’istinto. A Roma Key to the highway era quasi tutta senza slide, magari a Milano l’interpretazione cambia, chissà… Insomma: è il più grande chitarrista “dopo Clapton” (come hanno scritto gli americani)? Non si sa, ma la fantasia e la miriade di possibilità a disposizione, mostrano che Derek è un altro pianeta, non tanto per il virtuosismo o per la velocità, quanto per le strade che può far imboccare al suo rock-blues venato di soul-southernrock. Qualche critica? Proviamoci: il concerto non è lunghissimo, poco meno di due ore. I volumi non sono impeccabili (Derek sovrasta le tastiere esageratamente e la voce è poco equalizzata). Poi c’è una considerazione direi trasversale: di fianco a un mostro come Derek dovrebbe esserci una band di superuomini e la differenza immensa di qualità tra lui e gli altri, si nota. Anche e soprattutto tra lui e Kofi Burdbridge, che a conti fatti è l’unico in grado di poter jammare con il capobanda (tastiere e flauto, a tratti mi ricorda Jerry Eubanks, della Marshall Tucker, ma con una certa differenza di qualità…). Ma sono “punti neri” veramente minimi. Concerto e serata da voti altissimi". Walter Gatti
Foto Francesco Prandoni